Il riconoscimento facciale: come bilanciare sicurezza e libertà

Sempre più soggetti vogliono ricorrere a sistemi di riconoscimento facciale – si vedano, da ultimi, i comuni di Torino, Udine e Como, che vorrebbero implementare questa tecnologia all’interno del già attivo circuito di telecamere di videosorveglianza standard – per i più svariati fini, dall’esigenza di tutelare la sicurezza nei luoghi in cui vengono installate, a una serie eterogenea di altri obiettivi, ad esempio la realizzazione di un nuovo metodo di pagamento, come ha fatto la metropolitana di Mosca, dove dalle prossime settimane sarà possibile pagare il biglietto tramite un selfie.

Vista la sua versatilità, il riconoscimento facciale sarà certamente un settore di grande interesse per l’industria Tech nell’immediato futuro. Conoscerne il funzionamento, permette di calcolare più consapevolmente i vantaggi e i rischi di un suo ricorso.

Cos’è e come funziona il riconoscimento facciale?

Secondo la definizione data dal Comitato Europeo per la protezione dei dati personali “il riconoscimento facciale è quel trattamento automatico di immagini digitali contenenti volti di individui, per scopi di identificazione, autenticazione o verifica, o categorizzazione di suddetti individui”.
Fuori da tecnicismi, sofisticatissimi algoritmi di intelligenza artificiale “leggono” il volto dell’utente e, confrontandolo con i volti presenti all’interno del proprio database, riescono a identificarlo con un buon livello di accuratezza. Per farlo, sfruttano i dati biometrici precedentemente raccolti e utilizzati per addestrare – to train, il verbo utilizzato in inglese per questo procedimento – l’intelligenza artificiale che rende possibile questo processo.

Da ciò si evince che migliore sarà la qualità dei dati biometrici forniti al momento dell’addestramento, maggiori saranno le probabilità che il riconoscimento facciale funzioni correttamente. Allo stato dell’arte, infatti gli algoritmi riscontrano ancora rilevanti difficoltà nell’identificazione certa di alcuni volti: in particolare, quelli pertinenti a donne e a persone nere. Ciò è dovuto proprio al fatto che la maggior parte dei dati utilizzati in fase di addestramento si riferivano a soggetti maschi e bianchi. Emblematico, a tal proposito, è il caso dell’arresto avvenuto nei confronti di un innocente uomo afroamericano in New Jersey, vittima di un errore causato dall’impiego da parte della polizia di un’applicazione di riconoscimento facciale che si è scoperta successivamente essere molto lacunosa.

Per superare questa difficoltà, l’Unione Europea ha deciso di stanziare più di 900 milioni di euro per la creazione di un database di dati biometrici. Un investimento importante, che auspicabilmente posizionerà in pole position la l’UE nella corsa al perfezionamento di questo strumento.

A questo punto la domanda è lecita: cosa sono i dati biometrici e per cosa vengono impiegati?

Secondo la definizione che ne dà il professor Ziccardi, “il dato biometrico è un dato personale relativo alle caratteristiche fisiche, fisiologiche o comportamentali di un individuo mediante il quale ne consente l’identificazione univoca”.

Si tratta, allora, di una categoria di dati molto delicata, il cui trattamento, se condotto in maniera negligente, può produrre gravi ripercussioni nella riservatezza del soggetto leso.

Infatti, i dati biometrici vengono utilizzati per una molteplicità di scopi. Come anticipato, è usuale il loro ricorso nel più disparato impiego di tecnologie di riconoscimento facciale: dalla modalità di sblocco dello

smartphone, ai sistemi videoregistrazione adoperati per scopi di sorveglianza e sicurezza – come avviene, ad esempio, nel corpo delle forze di polizia statunitensi, o durante i controlli presso aeroporti e confini di vari Paesi-. Ma i dati biometrici non riguardano solo le immagini, anche gli smartwatch utilizzano informazioni di questo genere, ad esempio raccogliendo dati sul battito cardiaco dell’utilizzatore.

I dati biometrici, pertanto, rappresentano il carburante dello sviluppo di tecnologie sofisticatissime che, molto plausibilmente, ci accompagneranno – più di quanto già non facciano – quotidianamente nell’immediato futuro.

È opportuna, allora una riflessione sul loro impiego, consapevoli che questa categoria di dati rappresenta aspetti personalissimi degli individui e, pertanto, non si può prescindere da un’analisi dei rischi che comporta il trattamento su larga scala di informazioni così delicate.

Per usare le parole di Agostino Ghiglia, componente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali italiana, queste tecnologie “possono servire o essere un danno. Possono essere uno strumento di indagine oppure uno strumento di persecuzione, uno strumento per trovare qualcosa o per cercare qualcosa che non c’è”.

Non è ovviamente questo articolo la sede idonea ad aprire un dibattito etico sul tema, ma lo è per contribuire a diffondere consapevolezza sui vantaggi e sui rischi del progresso tecnologico.

Bisognerà bilanciare attentamente i benefici che derivano da queste tecnologie – di cui, lo ribadiamo, il riconoscimento facciale, è solo uno dei settori, e che, tra l’altro, può essere declinato per obiettivi molto distanti tra loro – e i rischi legati a violazioni della privacy, alla probabilità di errori o ad un loro impiego degenerato che ponga le basi per una sorveglianza dispotica.

Bisognerà anche tenere in considerazione che i dati raccolti oggi, magari da soggetti di cui ci fidiamo e per scopi nobili – come la prevenzione di malattie cardiache tramite lo smartwatch che ti avvisa in caso di alterazioni sospette del battito cardiaco – o innocui – come la modalità sblocca schermo tramite riconoscimento facciale -, possono essere conservati a lungo e, nei casi estremi, utilizzati da altri soggetti, magari malintenzionati. Si pensi, ad esempio, alle recenti preoccupazioni circa la disponibilità, da parte dei Talebani, dei database utilizzati dalle forze Afghane e Statunitensi per tracciare e tenere sotto controllo i terroristi. All’interno di questi database sono stati raccolti dati biometrici – tra cui foto segnaletiche e altre informazioni delicate – di migliaia di soggetti, che i talebani potrebbero utilizzare per scoprire e punire chi collabora con gli occidentali.

La questione è lungi dall’essere risolta. L’auspicio è che il citato bilanciamento tra progresso tecnologico e intrusività dei nuovi strumenti venga presto realizzato dal legislatore europeo, in quanto la sola disciplina sulla protezione dei dati personali non è sufficiente per garantire una tutela effettiva di tutti gli interessi. Nel frattempo, noi tutti possiamo prestare maggiore attenzione alle informazioni che diffondiamo e tenere a mente che, sempre più frequentemente, i dispositivi che utilizziamo o le applicazioni che scarichiamo raccolgono un’ingente quantità di dati.

Daniele Dhoor Singh

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